sabato 15 marzo 2014

This Must Be the Place, this must be Shakespeare


Uno dei monologhi più famosi di Shakespeare, forse, è quello di Shylock nel Mercante di Venezia. Il monologo fa riflettere sulla sostanziale uguaglianza ontologica degli esseri umani: siamo tutti accomunati dalla fragilità, dal bisogno di essere amati, curati, dall'inevitabilità del dolore, dalla finitezza della nostra vita. È questo il grande insegnamento di Shakespeare, di cui ho sentito l'eco anche in This Must Be the Place di Sorrentino

Cheyenne, fragile ex popstar

Cheyenne, fragile e depresso, un tempo celebre popstar,  si è ritirato  dalla scena musicale ma è rimasto attaccato all'estetica di quando era un idolo dei teenager: look dark, viso truccato di bianco, labbra rosse e capelli cotonati. Sì, è proprio Robert Smith il personaggio a cui si è ispirato Sorrentino. Almeno nell'estetica, perché poi la storia prende una strada che con il cantante inglese non c'entra più nulla.

Quando muore il padre, un ebreo scampato al campo di concentramento, Cheyenne scopre che  aveva passato la vita a dare la caccia al suo aguzzino, un ufficiale nazista di nome Aloise Lange, che lo aveva esposto a un'umiliazione di cui non aveva mai più cancellato il ricordo. Cheyenne, che non aveva più contatti col padre da trent'anni, decide di proseguire la sua ricerca, a partire dagli appunti e i diari che aveva lasciato.


La caccia

Ecco, la caccia inizia. Cheyenne si mette sulle tracce di Lange, che vive in incognito negli Stati Uniti. Cheyenne conosce prima la moglie e poi la nipote, che ignorano la sua identià. Man mano che si avvicina, scopre qualcosa su questo personaggio, come il fatto che  era stato rifiutato dal figlio, proprio come suo padre era stato rifiutato da lui. Cheyenne compra una pistola ed è pronto a usarla. Si avvicina sempre più e finalmente lo trova. Quello che trova è un vecchio dal volto incavato, costretto a fuggire tutta la vita perché il padre di Cheyenne non aveva mai smesso di cercarlo. Questo mostro in fondo non era che uno dei tanti ingranaggi nella catena di montaggio creata dal nazismo: non più feroce degli altri, un semplice esecutore.  Anche la sua vita è distrutta per sempre, la sua giovinezza lasciata dietro il filo spinato del lager, racconta Lange con parole che ricordano quelle scritte dal padre di Cheyenne nei suoi diari.  Cheyenne ripone la pistola, non gli interessa più ucciderlo. Però costringe il vecchio Lange a uscire nudo dal container dove si rifugiava. È in mezzo alle montagne e c'è solo neve intorno.  Quel vecchio nudo, smunto, esposto al freddo e all'umilizione ci ricorda un'immagine ben nota. Ecco il cerchio è chiuso. Cheyenne può tornare a casa e abbandonare per sempre anche il suo "travestimento": non ne ha più bisogno.


La comune condizione umana

In tutto questo viaggio e in questa scena finale in particolare io ho sentito l'eco di Shakespeare: siamo tutti accomunati dall'estrema fragilità della condizione umana, il re come l'uomo comune, l'ebreo come il cristiano, il carnefice come la vittima. Persino il nazista come l'ebreo, come ha voluto mostrarci Moni Ovadia nella sua rappresentazione dove un aguzzino nazista interpreta il monologo di Shylock, dilatandone il senso a una dimensione veramente universale.  È solo questa consapevolezza, questo senso di pietà umana che salva Cheyenne e gli impedisce di trasformarsi in mostro.




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